Pittura. Cecchi espone in Fortezza Nuova

Nella Sala degli Archi della Fortezza Nuova è stata recentemente allestita la Mostra personale del pittore Stefano Cecchi, patrocinata dal Comune di Livorno.
Chi, da architetto, si occupa di regole di buon governo, è portato a riferire la pittura di Cecchi ai luoghi di prigionia fisica e spirituale, espressi dalle periferie urbane e dalle favelas nei paesi in via di sviluppo nonché dai paesaggi deturpati e depredati dalle nuove forme di occupazione e consumo. Insomma, ai cosiddetti “non luoghi” che rappresentano, in urbanistica, il naufragio degli ideali del movimento moderno.
La cultura architettonica ed industriale del novecento, dalla fabbrica a misura d’operaio di Le Corbusier alla città senza carceri di Michelucci, è irrimediabilmente naufragata nel capitalismo globale che, se da un lato ha prodotto nuove opportunità, dall’altro ha generato profonde lacerazioni, accompagnate da provvisorie, quanto fatue, mitizzazioni.
“Il mio interesse fondamentale” – osservava Giovanni Michelucci nel secolo scorso – “non è il carcere ma la città: una città in cui il carcere non sia compreso né come concetto né come luogo”.
Il ribaltamento critico di queste utopie è reso da Cecchi attraverso una allucinazione visionaria ambivalente che rappresenta cittadini colpevolmente sudditi, sradicati dalla loro identità e proiettati in un contesto alieno, necessariamente e suo malgrado muto ed indifferente alle sofferenze individuali.
Si è osservato che “In questi racconti sono rappresentate le vittime, non solamente miti e inermi, anzi piuttosto complici di un sistema gaglioffo che privilegia l’ingordigia e il successo a tutti i costi. Oltre alle vittime ovviamente sono rappresentati i carnefici, esecutori compiaciuti di sentenze dissennate, secondo uno schema circolare che trasforma di volta in volta le vittime in aguzzini e viceversa” (Paolo Diara, Gli OGM hanno già preso il sopravvento, in CECCHI, dovremmo informare l’F.B.I., Catalogo della mostra tenutasi a Livorno nella Sala degli archi, Bandecchi e Vivaldi editori, Pontedera, p. 15).
La realtà e le sue molteplici letture sfuggono alla nostra interpretazione, come sembra suggerire il trittico de I coniglietti.
Sia pure con le approssimazioni che ciascuna sintesi presuppone, si è portati a distinguere almeno due diversi approcci nelle tele di Cecchi.
In un gruppo di opere prevale il segno grafico caratterizzato dal tratto scuro e netto, graffiante e provocante, con tavolozza semplificata e colori meno espliciti ed accattivanti che esprimono una visione piena e complessa, ambigua ed inquietante, scevra da semplificazioni e facili ironie.
Il riferimento, in particolare, è da riportare alle opere:
– I coniglietti, 2006, olio su tela, composto da tre tele, ognuna di cm 140 x 130;
– Bei tempi, 2013, olio su tela, cm 220 x 420;
– Cena in casa Levi, 2013, olio su tela cm 220×426;
– Ragno e afidi 2014, olio su tela, cm 120×170;
– Tre gatti sulla terrazza, 2012, olio su tela cm 133,5 x 188,5.
La tela Bei tempi sprigiona una tensione visionaria, minacciosa e allarmante, che coinvolge dall’interno il paesaggio e comunica un senso di intimo disagio e di disorientamento, attraverso le immagini di architetture consuete del nostro territorio, dai brandelli di cancelli in ferro battuto delle dimore alle lucertole che da bambini abbiamo inseguito sui muri di cinta assolati e che adesso ci fissano spaesate.
Così Cena in casa Levi dispiega un visionario allestimento, sotto un inquietante cielo giallo acido, solcato da volatili mostruosi non identificati, mentre fanno da sfondo, allo sciagurato banchetto, mura merlate e brandelli di architetture e colonnati, non più in grado di suggerire l’ordine, bello e buono, della classicità mitica.
In Tre gatti sulla terrazza la tensione della tragedia imminente passa direttamente dai felini inquieti alla subliminale percezione della nostra corteccia cerebrale, attraverso i colori grigio e nero che occupano tutta la tela, interrotti solo dall’arancio del parapetto e dal verde della ciotola.
Un altro nutrito gruppo di opere propone, invece, un diverso possibile approdo. La pittura indulge infatti nelle suggestioni cromatiche ed offre metafore più esplicite, forse per esprimere la ricerca di un rapporto con i fruitori delle opere d’arte e con il mercato ed un esito più ironico e sarcastico.
Basti pensare, ad esempio, alle opere:
– King Kong, 2013, olio su tela cm 136×175;
– Autoritratto e uomini in arancio, 2013, olio su tela, cm 125 x 160;
– Il grano, 2012, olio su tela, cm 96 x 136;
– Il ragno, 2013, olio su tela, cm 127 x 172;
– Pic nic sotto il Kilimangiaro, 2012, olio su tela, cm 111 x 146,5;
– Il cinema, 2008, olio su tela, cm 220 x 435;
– Storni, 2001, olio su tela, cm 140 x 120;
– Il pranzo, 2012, olio su tela, cm 110 x 140,5.
Questi racconti, attraverso una iconografia più riconoscibile, determinano un alleggerimento della tensione emotiva e visionaria a favore di una rappresentazione grottesca e caricaturale che si compiace di ricercare la partecipazione del pubblico.
La rappresentazione della città e del territorio allude, in questo caso, a temi di stringente attualità, quali il disastro ecologico e il dissesto idrogeologico, nelle sue contraddizioni tuttora latenti ed irrisolte, come ad esempio nel Pic nic sotto il Kilimagiaro o negli Storni o ancora nella Foresta recisa o ne Il grano o nel mostro delle acque raffigurato Nel pozzo.
Queste opere, diversamente dalle altre, sembrano alludere ad una visione che, pur rifiutando ogni credo assoluto, apre spazi alle contraddizioni ed alle ambiguità che, infine, sembrano poter convivere, per distinte e insondabili ragioni, chiuse in un mutismo rassegnato ed estraniante, ammantate, qualche volta, di ironia compiaciuta.
La mostra è accompagnata da un bel catalogo dal titolo: Cecchi, dovremmo informare l’F.B.I., a cura di Nicola Micieli, edito da Bandecchi e Vivaldi di Pontedera, con contributi di Paolo Diara, Nicola Micieli, Marco Tonelli e con la Testimonianza di Renzo Margonari.

Paolo Francalacci (testo) e Maurizio Comparato (foto)

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