Il viaggio di Francesca, 26enne volontaria in Perù
Metti insieme un po’ di spirito di avventura vissuto fin dall’infanzia con gli scout dell’AGESCI, l’esperienza con i ragazzi maturata in tanti anni come animatrice a San Jacopo e all’oratorio Santo Spirito e una naturale apertura verso gli altri concretizzata in tante attività di volontariato, ed ecco che trovi Francesca Ricci, 26 anni, Kekka per gli amici (nella foto la prima da sinistra insieme ai bambini della Casa del Nino).
Dopo l’esperienza del 2010 in Tanzania nelle missioni dei cappuccini della Toscana, quel desiderio di tornare non si era assopito. All’inizio alimentato dall’entusiasmo del ritorno, è rimasto acceso sotto le braci fino alla decisione di ripartire. Questa volta però per un altro continente, volando fino in Perù.
«Una delle cose che mi aveva colpito in Africa era stato l’aver trovato la terapia occupazionale come riabilitazione per persone con disabilità, materia della mia laurea. Una terapia che usa attività manuali, ludiche e di vita quotidiana per aiutare il paziente a diventare autonomo, che in Africa è molto più diffusa per quello che ho visto, che da noi». La voglia di un’esperienza in cui avrebbe potuto mettere a disposizione le sue competenze e che come in quel mese africano l’avesse di nuovo fatta sentire libera da tanti condizionamenti non voleva svanire. «Nel nostro stile di vita ci sono tante cose che ci allontanano dall’essenzialità. Lì avevo sentito la libertà di non fare caso a certe cose, come il vestirsi: il non dover per forza cambiare una maglia anche se pulita perché indossata già il giorno prima; il non dover controllare il cellulare o fare troppo caso all’aspetto».
“Doveri” che nessuno impone in modo esplicito ma che ognuno nel concreto si trova a seguire. «Sono stupidaggini che però mi facevano sentire meglio».
Poi tre anni fa gli esercizi spirituali a La Verna con le Figlie del Crocifisso: «Suor Agnese, la madre superiora, mi parlò della missione che dal ’69 la loro congregazione ha aperto in Perù. Due case, una a Lima e una a Chuquibambilla, un paesino a 3200 metri di altezza dove solo tre suore, una delle quali molto anziana e quasi cieca, si occupano di 38 bambini, dall’età dell’asilo, fino ai 17 anni».
Orfani, abbandonati o con una storia familiare drammatica. Come quella di chi ha visto la madre morire colpita da un fulmine o uccisa dal padre.
Poteva essere lì l’esperienza che Francesca cercava. «Avevo rimandato il viaggio per vari motivi, poi mi sono accorta che è arrivato quando per me il tempo era “giusto” e non era stata una decisione presa dall’entusiasmo del ritorno dall’Africa». Un viaggio che avrebbe condiviso con Daniela, una compagna del corso di danzaterapia che alla fine di quest’anno la farà qualificare come insegnante. «Parlando con le suore abbiamo iniziato a pensare che potessero essere utili delle sedute di danzaterapia per i ragazzi che da quest’anno hanno avviato un percorso con lo psicologo».
Una tecnica quella della danzaterapia che usa il corpo come mezzo primario per raggiungere gli scopi terapeutici. «Il nostro approccio è supportato da alcuni materiali che insieme al movimento aiutano a esprimere le proprie emozione e sensazioni permettendo di capire come vengono vissute determinate situazioni. Da lì si può partire per un lavoro personale». Ed è questo che Francesca e Daniela hanno sperimentato nelle tre settimane a Chuquibambilla. «Con i bambini più piccoli è stato un lavoro più faticoso perché per loro si fa tutto attraverso il gioco, ma le distrazioni sono tante. Il lato positivo è stata la facilità nel comunicare: erano loro stessi a insegnarci le parole spagnole che non conoscevamo e spesso basta il corpo per bypassare la parola».
Con le più grandi l’impatto emotivo è stato molto più forte, racconta Francesca. «Le suore hanno bisogno di essere aiutate con i più piccoli, ecco perché già a 12-13 anni le ragazze hanno tante responsabilità. A questo si aggiunge la difficoltà con così tanti bambini di coltivare un rapporto personale con tutti e anche in poche sedute di danzaterapia abbiamo visto come possa aiutare a riconoscersi come donne in grado di sognare e pensare di poter fare cose nel futuro. Il loro bisogno di contatto affettivo e di confronto anche sulle questioni più banali, fa sentire che in quel momento l’attenzione e l’ascolto è esclusivo per ognuna di loro».
Un futuro per questi ragazzi e ragazze della “Casa del Nino” di Chuquibambilla che potrebbe sfociare nello studio all’università di Lima, ma che per la maggior parte si traduce in desideri e sogni che rimangono tali. «Non si tratta di rassegnazione, anzi, lì questa parola non è conosciuta: anche se resti in paese ti inventi qualcosa per vivere, che sia artigianato o qualunque lavoro manuale». Ma per tanti la vita è quella che è iniziata e finirà a Chuquibambilla. «Non che sia sbagliato, l’importante però è che sia una scelta, non un dovere».
Come il sogno di una delle ragazze più grandi che ha deciso che il suo mestiere sarà quello di fare la turista, ma che in cuor suo sa già non poter realizzare con tre fratelli più piccoli da accudire.
Perché saresti rimasta? A questa domanda gli occhi di Francesca si bagnano. «Se devo scegliere due motivi il primo sarebbe l’aver visto gli effetti positivi della danzaterapia come risposta al bisogno di accoglienza personale. L’altro è di conseguenza il pensiero che mi diceva che avrei potuto fare di più per loro». E momenti in cui ha pensato veramente di rimanere ce ne sono stati tanti. «Mentre ero lì, mi sono sentita libera più volte di lasciare tutto e restare e pensando a un’ipotetica vita in quel paese mi sono fatta tante domande: è un ritmo quotidiano in cui sono stata bene per un mese, ma non so se alla lunga riuscirei ad adattarmi». Ma la paura più grande di Francesca era quella di tornare a casa con tanto entusiasmo addosso e tante promesse per una vita diversa e poi ritrovarsi invece a lottare per non rendere vano quello che aveva vissuto.
A settembre dovrà mettersi ancora una volta in cerca di lavoro, ma quello che ha portato nello zaino al ritorno dal Perù la rasserena. «Abbiamo un po’ disimparato ad abbandonarci alla Provvidenza. Lì invece ho sentito forte la sua presenza. Le preoccupazioni e i pensieri restano, ma la certezza di un aiuto da lassù mi rende tranquilla nel credere che mi guiderà nel lavoro e nel capire i prossimi passi da fare, magari portandomi di nuovo là per la tesi del corso di danzaterapia».
La sensazione di cui comunque Francesca è più certa è che il suo partire dal Perù era solo un arrivederci, come dire “Ciao…tanto ci rivediamo!”.
di Giulia Sarti (tratto dal quotidiano online della Diocesi)
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