Intervista (in 5 domande) al senatore Filippi
ll Presidente Napolitano, per la prima volta nella storia della Repubblica, è stato rieletto Capo dello Stato, una conseguenza della incapacità del Partito Democratico che non è stato in grado di indicare ed eleggere il nuovo Presidente. Sui fatti di quei giorni abbiamo letto delle ricostruzioni e dei racconti, veramente fantasiosi, Lei che è stato un testimone e un protagonista può spiegarci che cosa è accaduto, più precisante quali sono stati i motivi, le ragioni politiche che hanno spinto 101 grandi elettori del Partito Democratico a non votare il Presidente Romano Prodi.
Le ricostruzioni di quelle vicende penose e tormentate rischiano sempre la parzialità; di certo quello che si è consumato non è stato davvero uno spettacolo edificante. Dal mio punto di vista è stato sicuramente deficitario il rapporto comunicativo tra i vertici del partito e i grandi elettori (deputati, senatori e rappresentanti delle regioni). Sulla votazione per Prodi indubbiamente è stato pagato il repentino cambiamento di strategia che il giorno prima aveva portato invece a indicare Marini. Marini e Prodi entrambi due padri fondatori del PD, ma due modi assolutamente opposti di definire la relazione con il centro-destra. Insomma si è passati da un giorno all’altro da stabilire una relazione di distensione con l’avversario a prefigurare l’apertura di un conflitto insanabile. Generalmente, quando avviene ciò, chi ne fa le spese è chi ha la massima responsabilità e quindi il voto di astensione su Prodi è stato un voto contro il Segretario, che infatti nelle condizioni drammatiche di quei momenti si è dimesso.
Il Governo delle larghe intese presieduto dal Ministro Letta sta muovendo i primi, timidi, passi: il rifinanziamento della Cassa integrazione in deroga; la proroga per l’acconto di giugno dell’Imu in vista di una rimodulazione della tassa più odiata dagli italiani; la legge che abroga il finanziamento dei partiti. Quali altri provvedimenti/riforme state discutendo in Senato?
Più che Governo delle larghe intese a me piace definirlo, come ha fatto Enrico Letta, un governo di servizio al Paese impegnato per le emergenze economiche e sociali, prodotte dalla drammatica crisi ancora in corso, e se ci riesce, per le riforme istituzionali necessarie a sbloccare uno stallo del sistema statale, da tempo non più in grado di far crescere il paese. Oltre ai provvedimenti che ha ricordato, il Senato attualmente è impegnato sul decreto emergenze del paese (dai sisma dell’Abruzzo a quello dell’Emilia, dalle emergenze ambientali della Campania a quelle della Sicilia, dal riconoscimento dell’Area di Crisi Complessa per le acciaierie di Piombino, all’ultimazione senza inconvenienti dell’Expo 2015 a Milano) e sul decreto che ha sbloccato i pagamenti per la P.A. elevando il deficit pubblico al 2,9% per 40 miliardi di euro in due anni. Il massimo consentito per non incorrere nella procedura d’infrazione europea.
Il Segretario Epifani ha confermato che entro l’anno si terrà e si concluderà il congresso del Partito Democratico, queste le sue parole: “Dobbiamo partire dai congressi nei circoli e arrivare poi a scegliere il nuovo segretario. Non dobbiamo fare come nelle volte scorse dove i nostri iscritti hanno solo scelto il nuovo segretario, prima di decidere chi sarà, dobbiamo decidere che partito vogliamo…”. Lei che partito vuole ?
Voglio un partito che, ispirandosi alla cultura socialista e liberale, possa essere davvero la casa comune di tutti i democratici. Un partito che assuma senza riserve il principio delle decisioni a maggioranza. Un partito che di volta in volta, senza paura, definisca la propria identità attraverso un confronto e un voto. Un partito dove i territori e i circoli siano davvero il centro dell’iniziativa politica e non solo il luogo dove si organizzano le truppe per le campagne elettorali o congressuali. Perché ciò sia possibile occorre allora un congresso che metta al centro questi luoghi, prima della scelta del leader, chiamato a rappresentarci tutti, e che si interroghi sul “collante” con cui sia possibile tenere unito un mosaico tanto articolato come quello presente oggi nel Partito Democratico. Un congresso quindi che abbia come obiettivo la trasformazione delle attuali correnti, talvolta di carattere feudale con tanto di vassalli valvassori e valvassini, in aree culturali capaci di articolarsi in una dialettica anche vivace, rappresentando così la ricchezza delle diversità presenti senza cristallizzarsi come invece le attuali dinamiche hanno determinato. Un partito capace di trasformarsi così come chiede una società in continua evoluzione. Ribadendo così la sua natura di partito non padronale, non fondato sull’uomo solo al comando: una caratteristica che solo il PD ha in questo momento in Italia.
Le ultime elezioni amministrative hanno decretato la vittoria dei candidati di centro-sinistra, un buon successo sia nelle città del nord Italia (Veneto) che a Roma. Lei come spiega questo successo anche alla luce della NON vittoria del PD alle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio?
Le recenti elezioni amministrative hanno visto un crollo della partecipazione al voto drammatica per la cultura e la tradizione del nostro Paese. Personalmente non mi rassegno al fatto che questo debba essere un trend da non invertire. Ne va della qualità della nostra democrazia già da tempo messa a dura prova. Non mi sorprende quindi che in questo contesto rarefatto, pur con le nostre drammatiche performance fatte dopo il voto alle politiche, il Partito Democratico sia ancora in piedi. Nella sostanza rimane l’unico partito nazionale che ha delle regole chiare e svolge veri congressi per definire linea politica e gruppo dirigente. La contendibilità in un partito è spesso causa di instabilità, ma probabilmente la perfezione non appartiene a questo mondo e poi non a tutti gli italiani piace sentirsi totalmente estranei alla politica.
Il prossimo anno anche a Livorno ci saranno le elezioni amministrative. Nelle altre città (ad esempio a Roma) abbiamo visto che lo strumento delle primarie è molto efficace, il candidato che viene scelto dagli elettori di centro sinistra successivamente vince anche le elezioni. Lei pensa che anche a Livorno dovrebbero essere organizzate le primarie e può suggerire ai livornesi l’identikit del suo candidato ideale, ad esempio il futuro sindaco deve essere una persona con una significativa esperienza politica, visti i tanti problemi presenti nella nostra città, oppure può essere anche una persona proveniente dalla cosiddetta ‘società civile’?
Le primarie ritengo siano, specie per le cariche monocratiche, uno strumento insopprimibile. Certo non assolvono per intero al ruolo e alle responsabilità che un gruppo dirigente politico assume inevitabilmente con l’approssimarsi di un appuntamento elettorale. Forse possono essere meglio definite le regole costruendo percorsi che permettano sempre maggiore partecipazione e conoscenza effettiva dei candidati e, soprattutto, evitare che le primarie siano una continuazione o un’anteprima dei congressi. Occorre soprattutto che una competizione elettorale, per quanto importante, non si trasformi in una resa dei conti interna, come purtroppo è capitato anche di vedere negli ultimi anni. Per il resto non c’è nessun particolare profilo o identikit a cui ispirarsi. Una persona per bene, motivata, con una gran voglia di fare e che abbia nei suoi registri la conoscenza e la voglia di amare la nostra città, penso possa bastare! A un sindaco, in fondo, più di ogni altra cosa è chiesto di sposare la città che rappresenta e amministra.
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