Volevano l’avvocato gratis, scoperti 18 finti poveri

Hanno finto di non avere un reddito adeguato per permettersi un avvocato di fiducia, chiedendo così il “gratuito patrocinio” a spese dello stato. La guardia di finanza ha però scoperto “18” finiti poveri che avevano presentato false attestazioni per ricevere gratuitamente l’assistenza legale pagata grazie ai soldi dei contribuenti italiani. Per i “furbetti” è scattata la denuncia all’autorità giudiziaria. Il gratuito patrocinio è un istituto, previsto dalla Costituzione,  che consente ai cittadini, che dichiarano di trovarsi in disagiate condizioni reddituali e o familiari, di farsi assistere da un avvocato o da un consulente tecnico in processi penali, civili, amministrativi o tributari, senza doverne pagare le spese sia di difesa che processuali. I riscontri effettuati dalla guardia di finanza sono stati finalizzati, quindi, a verificare la veridicità dei dati e delle informazioni contenute nelle autocertificazioni prodotte dagli interessati, mediante la consultazione delle banche dati informative, i rilevamenti presso enti esterni (Inps, anagrafe comunale) nonché, laddove necessario, attraverso il controllo di scritture contabili e delle risultanze bancarie.

I relativi controlli eseguiti negli ultimi mesi hanno consentito di rilevare numerose irregolarità: su 28 autocertificazioni esaminate, 18 sono risultate non veritiere. A finire nei guai sono stati 14 cittadini italiani e 4 stranieri residenti nella provincia di Livorno.
In quattro dei casi certificati  i trasgressori hanno attestato falsamente la sussistenza dei requisiti di reddito, richiedendo l’ammissione al gratuito patrocinio non avendone diritto. Nelle restanti circostanze, pur rientrando nei parametri previsti ai fini della concessione del patrocinio legale dello Sato, hanno omesso, anche parzialmente, l’indicazione di valori reddituali, rendendosi così responsabili della violazione penale. In linea generale, sono state rilevate una o più delle condotte illecite. Tra queste l’omessa indicazione dell’effettivo numero di componenti del nucleo familiare o falsità nella autodichiarazione del reddito imponibile di riferimento. In alcuni casi è stata scoperta anche l’omessa indicazione di tutti i redditi percepiti, per la corretta determinazione della soglia di ammissione. Si tratta di una situazione riscontrata in più casi, atteso che molti richiedenti non hanno inserito tra i propri redditi l’indennità Inail, l’assegno di maternità o i premi di produzione. Ma non solo. Le fiamme gialle hanno individuato anche false indicazioni sulla situazione anagrafica per consentire di abbattere il reddito complessivo familiare o innalzare il limite reddituale stabilito dalla legge (che prevede un aumento di € 1032,91 per ogni familiare convivente). Si cita, in particolare, il caso di un commerciante cinese, residente a Collesalvetti, che ha presentato una domanda di ammissione al beneficio con uno stato di famiglia non più attuale. Lo stesso, infatti, ha attestato la convivenza con più familiari che avevano, invece, trasferito la propria residenza facendo venire meno i presupposti per il godimento del gratuito patrocinio.
Per alcuni denunciati è stato invece segnalato l’inserimento nell’istanza del valore riferito all’indicatore Isee, in luogo del più elevato reddito imponibile fiscale previsto dalla legge. L’indicatore Isee è richiesto generalmente per l’accesso ad altre specifiche prestazioni sociali agevolate (rette scolastiche, mense, prestazioni sanitarie ecc.), ma non per il gratuito patrocinio. Tale situazione è stata accertata nei confronti di un operaio livornese, imputato in un procedimento penale per il reato di falso.
Come se non bastasse sono alcuni sono stati deferiti per omessa comunicazione delle variazioni rilevanti dei limiti di reddito, verificatesi successivamente all’ammissione al beneficio, da portare a conoscenza prima della definizione del procedimento.
Tra i casi accertati si cita anche quello di un livornese settantenne, titolare di un’impresa di pulizie, imputato in un procedimento penale per reati tributari. La legge preclude, infatti, agli evasori fiscali la concessione del beneficio, a prescindere dai limiti reddituali conseguiti. I responsabili rischiano la pena della reclusione da uno a cinque anni ed una multa da 309,87 a 1.549, 37 euro. I controlli effettuati nello specifico settore si inquadrano nell’attività svolta dalla guardia di finanza a tutela della spesa pubblica nazionale, tesa a riscontrare – in via preventiva – indebite richieste di cittadini che, qualora accolte, arrecherebbero un danno al bilancio pubblico, consistente nel pagamento da parte dello Stato delle prestazioni professionali degli  avvocati e delle spese processuali.

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