Giuseppe Stefanini memorie del 4 novembre 1918

Oggi ricorre il 4 novembre data in cui, nel 1918, il generale Diaz
comunicò al popolo italiano, la vittoria della Prima Guerra mondiale
contro l’esercito Austriaco.
Quel giorno mio nonno, allora quindicenne, si precipitò con il resto
della cittadinanza davanti al Municipio di Livorno per ascoltare la
comunicazione circa l’esito della guerra.
Pur non essendosi mai definito uno scrittore, quegli attimi vissuti,
riuscì poi a trasmetterli alla penna in modo superbo, qualcuno sostiene
in modo pirandelliano. Questo racconto fa parte di un tracciato ben più
ampio in cui mio nonno racconta la sua vita.
Ricorrendo il 4 novembre ho il piacere di lasciare questa testimonianza
in esclusiva per QuiLivorno, sperando che sia cosa grata per i suoi
lettori.
Giuseppe Stefanini, nato nel 1903, è stato un perseguitato politico,
condannato dal tribunale fascista nel 1935 per aver ricostituito il
Partito Comunista in clandestinità sotto il regime
fascista.

E fu così che si arrivò alla grande battaglia di Vittorio Veneto e
verso la fine di ottobre del 1918 arrivò la bella e sfolgorante notizia
della fine della guerra, ma la contentezza del popolo italiano durò
poco perché la notizia venne smentita. Dopo qualche giorno però,
precisamente il 4 novembre, il comunicato della fine del conflitto per
l’Italia con i tedeschi fu notizia vera.
Tutto il popolo della città si riversò per le strade e nelle Piazze in
un tripudio di immensa gioia, andando riempiendo la Piazza del Municipio
ove il Sindaco dall’alto della scalinata, lesse l’ormai storico
bollettino firmato dal generale Diaz che diceva:

“La guerra contro l’Austria-Ungheria che,………..l’Esercito Italiano,
inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 Maggio 1915 e con fede
incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41
mesi è vinta.
La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso Ottobre ed alla
quale prendevano parte cinquantuna divisioni italiane, tre britanniche,
due francesi, una cecoslovacca ed un reggimento americano, contro
settantatre divisioni austroungariche, è finita.
La fulminea e arditissima avanzata del XXIX corpo d’armata su Trento,
sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche………ha
determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria. Dal Brenta
al Torre l’irresistibile slancio…….ricaccia sempre più indietro il
nemico fuggente.
………..L’Esercito Austro-Ungarico è annientato……….
I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo
risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso
con orgogliosa sicurezza.”

E da lì, innalzando la Bandiera della Pace, ebbe fine quella sanguinosa
e disastrosa guerra che costò più di 700.000 vittime milioni di feriti
e centinaia di migliaia di mutilati. Non vi era famiglia che non avesse
vissuto conseguenze anche letali. Inutile dire il tripudio che ci fu
anche nella Città di Livorno per questa notizia: un immenso boato si
alzò dall’immensa folla – e spero che nella vostra vita, abbiate da
credermi sulla parola senza mai constatare di persona, che nessun altro
sfogo sociale è paragonabile a quello della fine di una guerra che ti
colpisce direttamente, è una liberazione che può farti piangere e
ridere allo stesso tempo, e liberarti scarichi di adrenalina saturandoti
di una temporanea, magica energia. – E vi furono evviva inneggianti alla
pace, evviva per i ragazzi del nostro Esercito che conseguirono la
vittoria; fu un vero e proprio delirio di contentezza generale.
E vidi con i miei occhi, perché pure io ero lì tra la gente, alcuni
uomini trangugiare fiaschi di vino a “garganella” e tanti vi si
ubriacarono, altri che dalla contentezza si arrotolavano in terra
incuranti di essere calpestati; e abbracci, abbracci tra sconosciuti; e
baci, baci trai più sinceri che si potessero dare, consumati perfino
tra uomini che non si erano neanche mai visti tra loro, si accomunava
ogni ceto sociale taluni dei quali svestiti del loro aplomb
festeggiavano baldi e goffi; eppoi cappelli che cadevano e non venivano
più ritrovati, o cappelli che venivano scambiati da una testa all’altra
tra l’ilarità dei conniventi; e salti di gioia, capriole e molte, dico
molte donne scese in piazza, che piangevano disperatamente per questa
guerraccia che gli aveva portato via un proprio caro, e tra queste
trovai sconcerto, vedere madri di figli morti al fronte e le conoscevo,
festeggiare singhiozzando con i figli rimasti, tirate da una parte e
dall’altra: tra la vita che finisce e la vita che prosegue. Ed io presi
a baciarle e baciavo donne e ragazzine che iniziarono a corrermi dietro
e ricordo di aver visto nella fontana Ivo, che ci si era rituffato, e
mio zio Armando che imprecava e saltava come un orso anche lui dentro la
gelida fontana. Insomma fu una baldoria che durò tutta la notte e per
tutta la giornata seguente.
Questi sono stati i vostri livornesi, e vi invito a fantasticare solo
per un attimo chiudendo gli occhi, piano piano, cercando di rivivere
quei momenti, cercando di respirarne l’aria, di sentirne il suono e il
contatto della gente, gli scampanellii, le vesti stracce, le campane a
festa, mentre quelle degli Ansaldo, degli Agnelli, degli Orlando
suonavano a morto con quella notizia. Chi non è livornese faccia
altrettanto, pensando alla sua città, al suo paese, alla sua piazza,
dove contemporaneamente a tutte le altre d’Italia ebbe luogo questo
delirio di felicità.
Poi come in tutte le cose di questo mondo, la calma e il ragionamento
prevalse in molti, e la città iniziò a pensare a coloro che sarebbero
ritornati alle loro case e alle proprie caserme; anche se, molto
rapidamente, ebbe sopravvento il grave sconforto, dispiacere e dolore,
per le famiglie i quali congiunti non sarebbero mai tornati.
Così sono le sciagurate guerre che i popoli non vorrebbero mai, perché
ogni famiglia poi ha la sua croce, infatti oltre alla dannata ipotesi di
avere avuto i propri congiunti caduti o mutilati nell’infame guerra, vi
furono pure famiglie, come la mia che, malgrado le conseguenze non
fossero state estreme, si portarono dietro lo strascico della diserzione
di Armando, ma soprattutto la defezione mentale di Ivo che solo dopo
moltissimi anni riuscì a stento a conviverci.

Chiamiamoli altri tempi, ma una costante è rimasta: la cupidigia del
comando di una certa cerchia dell’umanità, quella sempre alla ricerca
degli interessi personali, di casta. Quella cupidigia che ci trascinò
nel baratro della prima guerra mondiale la quale avrebbe lacerato il
mondo in modo permanente.
Il capitalismo, per mezzo della politica corrotta, entrambi, all’epoca,
ne combinarono di cose che sdegnano, e con sentimento di schifo per le
lordure di cui si resero responsabili, noi subimmo e assistemmo
impotenti a questo disastro civile da loro perpetrato. La cosa peggiore
è che ci resero parte attiva dello sterminio: noi esseri umani
sterminavamo i nostri simili, per loro.
Ci macchiammo ancora una volta del sangue del nostro sangue, e ciò ebbe
seguito qualche anno dopo.
Ma lasciamo spazio allo storico più blasonato per l’approfondimento di
questi costanti intrighi politico-capitalistici che ci hanno regalato le
epoche. Mentre io, povero essere umano, arrivato fino quasi in fondo al
vialone della vita, credo utile raccontare questi episodi personali,
poco influenti, ma penso che ne valga la pena per far capire la
semplicità e la fragilità degli esseri umani nella tempesta degli
eventi.

Nicola Stefanini
ai lettori di Qui Livorno

Riproduzione riservata ©