Così la mia famiglia si salvò dalle foibe
di Shamira Gatta
Ricordare è importante, il mondo intero sa che non c’è futuro senza memoria, distruggere la memoria, negare il passato, equivale a distruggere noi stessi. Per questo i giorni del Ricordo sono importanti, e per questo noi dobbiamo impegnarci a tramandare ai nostri figli i racconti dei nostri genitori, e dei nostri nonni…
Quando sento parlare dell’Istria, ho una gran nostalgia, un misto tra gioia e tristezza, come se fosse la terra dove ho lasciato il cuore, come se anch’io avessi dovuto abbandonarla, ed è una cosa che molti non capiscono, e che io non riesco a spiegare, penso che a volte l’amore e la storia ci rimangano dentro, diventino parte di noi, scavalcando anche le barriere del tempo, tramandando di generazione in generazione l’amore per una terra perduta, per una famiglia mai avuta…
L’Istria: in Italia ancora troppe persone non sanno cosa sia; l’Istria è quella terra che io ancora sento mia, quella terra che solo sentirne il nome mi vela il cuore di tristezza, quella terra in cui c’è ancora la fabbrica di mio nonno, con il suo nome sulla soglia d’ingresso, e la nostra casa, con la porta sbarrata dal catenaccio, la casa di mia nonna, inagibile, e mai più nostra.
Un anno fa ho deciso di raccontare la storia della mia famiglia, e di mia nonna Etta Bertotto, grazie a quel racconto, pubblicato e condiviso su internet, ho ritrovato parenti che non sapevo di avere, ho stretto nuove amicizie, scambiato storie ed opinioni, raccolto preziose testimonianze. Sono 18 anni che non faccio ritorno a Cherso, l’isola da cui proviene la mia famiglia, ma ancora ricordo nitidamente ogni cosa; la strada per casa di zia, il fornaio dietro alla torre, il porticciolo con i pescatori di ritorno con i pesci, le spiagge piene di “margherite”, grossi granchi abituati a non temere l’uomo, i turisti erano pochi, ed io, appena girato l’angolo, fuori da casa di zia, mi slacciavo i sandali e correvo a piedi nudi sul selciato bollente, ricordo ogni cosa, le cicale, le foglie d’argento degli ulivi, il caldo che mi avvolgeva quasi fosse una coperta, e la collina per andare al mare, a Lussino, da mia zia e mio cugino, che se andava bene vedevo una volta l’anno, il sentiero per il mare piena di fiori di cipolla selvatica. Ricordo bene la strada per casa di mia nonna, quasi come se la percorressi tutti i giorni, ricordo i muri pericolanti, il focolare, le cornici dei quadri sparse sul pavimento, le poche cose rimaste a terra, sopravvissute al saccheggio, coperte di fango e polvere, il giardino con l’albero di prugne, così dolci e succose…
Mia nonna, Etta Bertotto, era nata a Cherso, terra Istriana, al tempo territorio italiano, ceduta poi alla Jugoslavia, a seguito del trattato di pace del 10 febbraio 1947, un’isola in cui tutti si conoscevano, le famiglie erano numerose ed unite, gente pacifica, che viveva di pesca ed agricoltura, nessuno degli abitanti volle, per così dire, cambiar bandiera, come scrissero poi gli esponenti del partito Comunista Italiano, e non ci furono rivolte, dato che gli abitanti confidavano nell’armistizio. La notte del 17 settembre del 1943 approdarono, sulle rive di Cherso, gli jugoslavi di Tito, che mia nonna, quando raccontava, chiamava i “Titini”, occuparono il municipio e presero il potere, il giorno dopo il loro comandante convocò il comitato cittadino per esonerarne i membri; il 25 settembre iniziarono le prime sparizioni, 14 uomini furono prelevati, senza preavviso, di notte, dalle loro case, vennero legati e fatti imbarcare con la forza, 4 di loro furono fucilati senza nessuna accusa, erano solo impiegati, commercianti o pensionati, tra di loro anche un meccanico, un tornitore ed un giudice, sui giornali fu scritto che furono arrestati dai Carabinieri partigiani, durante un furto ad un magazzino dell’olio… Sempre di notte fu abbattuto il leone di S.Marco sulla torre dell’orologio, al suo posto la scritta “Tito”, si doveva cancellare ogni traccia degli Italiani, dalle bandiere ai simboli. I ragazzi in età militare furono costretti, con i mitra puntati, ad “arruolarsi volontari” nell’esercito di Tito, non fecero nessuna eccezione nello scegliere i ragazzi, deportarono anche i malati ed i figli delle vedove, all’inizio ne portarono via 85, ed allora come adesso, si conoscevano tutti sull’isola, ed erano molto forti i legami tra le famiglie; fu una gran sofferenza per tutti, vedere dei ragazzi strappati alle proprie madri; vennero mandati senza scarpe e senza viveri, sui Balcani, in pieno inverno, molti di loro non fecero mai ritorno, morirono assiderati ancor prima di impugnare un arma. Non ci si poteva rifiutare di partire per arruolarsi “volontari”, le madri ogni giorno preparavano le scorte di viveri per i figli, e pregavano che nessuno venisse a prenderli, non si poteva scappare, coloro che scappavano erano inseguiti dai Titini con i cani, e sotto la minaccia di veder deportati i padri o i gli anziani nonni, i giovani tornavano a casa.
Furono deportati infine altri 150 uomini, tra loro anche il comandante Italiano che si occupava di arruolare i ragazzi, questo per dimostrare che ormai era servito alla causa, e siccome Italiano, doveva sparire.
Iniziarono ad alzare le tasse, a pretendere i viveri di tutti i cittadini, entravano in casa perquisendo anche le donne ed i bambini in fasce. Iniziarono le rappresaglie contro gli italiani, fu istituito il coprifuoco, c’era paura anche solo a parlare per le strade, le persone, senza distinzione di sesso o di età, venivano torturate e massacrate, infine i corpi venivano fatti sparire, gettati nel mare dalle alte scogliere. Sull’isola le risorse iniziarono a scarseggiare, beni e viveri requisiti e spediti all’esercito di Tito, c’era così tanta miseria che quando la mia trisnonna Maritza ebbe la fortuna di trovare una noce, la divise tra nonna Etta e zio Giannino, il suo fratellino, e con le due metà del guscio, costruì una piccola barchetta, quello era il regalo di Natale per nonna e zio. Le donne, rimaste sole in casa con i bambini considerati troppo piccoli per arruolarsi, si aiutavano tra di loro, ed assistevano impotenti all’orrore che ogni notte si consumava per le vie del paese. Mia nonna mi raccontava che di notte i Titini attraversavano Cherso, per prelevare coloro giudicati “ostili” alla causa, mi diceva che il silenzio era assordante, il cuore per la paura batteva così forte che sembrava dovesse uscire dal petto, nessuno riusciva a dormire, pregavano infreddoliti sotto le coperte, sentivano i passi per le strade, i bambini piangevano in silenzio, e poi si sentiva bussare alla porta del vicino, la scena che si consumava per i vicoli acciottolati era l’inizio di una grande tragedia, gli uomini, testa bassa e polsi legati con il filo spinato, venivano portati via, per non fare più ritorno “li sentivi bussare alle porte, speravi che non toccasse a te” mi raccontava mia nonna…
A Cherso le persone venivano buttate giù dall’alta scogliera, con mani e piedi legati, nel resto dell’Istria invece c’erano le foibe. Tito incaricò i suoi soldati di “risolvere il problema” di quelle persone che non approvavano l’annessione dell’Istria alla Jugoslavia, dette il via così alla pulizia etnica, che per anni è stata negata, e che molti purtroppo negano ancora. Non dimenticherò mai il dolore che c’era negli occhi di mia nonna, quando mi raccontava che per strada non potevano parlare, ed avevano paura anche a bisbigliare nelle proprie case; a scuola non dovevano parlare Italiano, dovevano imparare le loro canzoni, e per farli divertire anche ballare, e se ti rifiutavi erano botte, anche se eri un bambino. Nonna scappava da scuola per non sottostare alle punizioni dei Titini, perché lei voleva parlare italiano, lei non voleva ballare per loro a comando, così scappava per il bosco, fino ad arrivare alla spiaggia e con un filo ed un amo di fortuna, cercava di pescare qualche pesciolino. ” venivano di notte, prendevano tutti, ci portavano via, tutti sapevano, ma nessuno poteva dire niente, si doveva esporre la loro bandiera alla finestra, se non lo facevi bussavano di notte anche a te”.
Le foibe sono voragini di origine naturale, profonde più di 20 metri, dal 1943, al 1947 vi sono stati gettati circa diecimila italiani, la maggior parte di loro erano ancora vivi, costretti a mangiare rovi e sassi nel tragitto per la foiba, poi legati tra loro con una fune; sparavano al primo, che cadendo si portava dietro il resto della fila.
Molti di loro rimanevano in vita sul fondo delle foibe, la caduta attutita da altri corpi, morivano di stenti, di embolia, o per le granate che i Titini lanciavano poco dopo.
Intanto Istria e Dalmazia sono sotto continui bombardamenti, Zara viene bombardata fino a 5 volte al giorno, Cherso si salva grazie alla fortuna, mia nonna mi raccontò che ci fu una soffiata da parte di qualche militare, dissero che la notte stessa, i bombardieri avrebbero raso al suolo Cherso, il paese ed il porto. La gente, con i bambini piccoli ed i propri cari, cercò rifugio nelle campagne, Mio zio Giannino, allora ancora molto piccolo, si metteva a piangere quando sentiva arrivare gli aerei, riusciva a sentirli prima di tutti “quando piange Giannino corri, perché arrivano a bombardare, tu non li senti, ma se lui piange è sicuro che arrivano”. Quella notte, mentre il piccolo Giannino piangeva, gli abitanti di Cherso guardarono in alto, e dopo poco videro arrivare i bombardieri. Ma gli abitanti del paese erano stati previdenti, ed avevano spento ogni luce “nessun lume stanotte dovrà restare acceso, speriamo che il cielo ci assista” gli anziani che non potevano muoversi erano rimasti nelle case a pregare, e dalle finestre vedevano avvicinarsi gli aerei. Il caso volle che la notte scelta per bombardare l’isola, fosse una notte senza luna, ed i piloti, non riuscendo ad individuare l’obbiettivo, e non vedendo nessuna luce, non sganciarono le bombe e passarono oltre.
Da Zara, nel novembre 1944 arrivano notizie disarmanti, che gettano nello sconforto gli abitanti di Cherso, solo a Zara infatti sono già 900 gli Italiani uccisi, e 400 i deportati nei campi di prigionia, numero che verrà poi confermato dall’avvocato Sabadin, ex prefetto di Padova. Preti ed imprenditori vengono caricati a forza sopra ai camion, vengono poi “liberati” in campagna ed infine fucilati. I Titini iniziano a programmare attentati lungo le linee ferroviarie, il terrore dilaga, i treni vengono fatti saltare in tutta l’Istria. Intanto nel paese di mia nonna continuano le deportazioni, nessun giornale dell’epoca riporta i nomi dei deportati, vengono fatti sparire, uccisi, annegati, lapidati o massacrati sull’Isola di Veglia. I deportati ed i loro nomi furono cancellati dalla storia e dalla memoria.
Ad oggi, sappiamo di loro grazie ai testimoni che li videro deportare, io so di loro grazie a Luigi Tomaz, cugino di mia nonna Etta, figlio di Nicolò Tomaz ed Ancella Bertotto. Angelo Bertotto, lo zio di mia nonna, fu arrestato 4 volte durante l’estate 1943, ogni volta fu processato fuori dall’isola, ed ogni volta riuscì a far ritorno; Renato Bertotto, fratello di Angelo, invece fu mandato a fare il meccanico nelle miniere dell’Arsia. Fu poi arrestato, senza alcuna accusa e condannato ai lavori forzati nel campo di concentramento di Maribor in Slovenia, nessuno ebbe più sue notizie, ed i familiari lo cedettero morto.
Dopo 3 anni di prigionia fu rilasciato, magrissimo ed irriconoscibile.
Dei campi di concentramento comunisti si è sempre sentito parlare poco, i Titini non tenevano una documentazione, e non facevano filmati o foto, tutto ciò per nascondere meglio i campi agli occhi del mondo.
I pochi sopravvissuti ricordano l’orrore dei lager, le torture, i prigionieri che non riuscivano a lavorare venivano costretti a scavarsi la fossa da soli, gli altri morivano di fame, freddo e tifo, molti tentavano il suicidio, il solo campo di Goli Otok dal 49 al 56 vide passare oltre 30.000 prigionieri, la maggior parte di loro morì a causa delle torture ricevute.
Chi entrava nei campi doveva passare in mezzo a una doppia fila di uomini, pronti a prendere a calci, pugni e bastonate i nuovi arrivati, chi non si dimostrava “abbastanza crudele” sarebbe stato a sua volta bastonato.
C’erano notti in cui le guardie dei campi si presentavano nelle baracche, leggendo un elenco di nomi, chi veniva nominato doveva salire su un camion, di loro tornavano solo i vestiti. Il 31 ottobre 1945 a Capodistria, alcuni italiani provano a protestare, saranno poi vittime Titini, che al grido di “morte agli Italiani”, scenderanno in città, distruggendo e sfondando le vetrine dei negozi, ferendo decine di persone, massacrando due famiglie (Cocianich e Bonazza) e lasciando i bambini a dormire insieme ai cadaveri dei nonni e dei genitori. Nel febbraio 1947 Istria e Dalmazia vengono cedute alla Jugoslavia, trecentocinquantamila persone lasciano la loro terra, abbandonando tutto, case, averi, ricordi, affetti… Oltrepassano la nuova frontiera, dove nessuno sapeva quale orrore si stava consumando in terra Istriana in tempo di “pace”, quando il treno stipato di profughi, sulla quale si trovava anche mia nonna, arriva a Bologna, gli esuli, vengono accusati: “venite a portarci via il lavoro”, per il resto dell’Italia non sono altro che traditori, fuggiti dal “paradiso comunista di Tito”; mia nonna raccontava sempre di una famiglia, che era nella sua carrozza, la mamma aveva in collo una bambina piccola che piangeva per la sete, arrivati in stazione chiese dell’acqua, ma ricevette solo insulti, sputi e disprezzo. Mia nonna Etta, quando arrivò a Trieste aveva 13 anni, il 13 Dicembre 1949, dopo due anni di tentativi per venir via da Cherso dettero il permesso a mia nonna ed alla sua famiglia di venir via, ma le partenze non erano mai semplici, dissero alla mia bisnonna Tona, “se volete andare in Italia andate, ma sua mamma rimane qui”.
La mia bisnonna lasciò la madre dai cugini, e partì, per salvare i figli. Alla frontiera cambiarono i nomi e le date di nascita, Italiani, considerati stranieri in patria, trattati come criminali, quando gli esuli arrivano alla frontiera, vengono bloccati a Trieste, la maggior parte di loro viene rinchiusa nella risiera di San Sabba, li vengono schedati, si prendono le impronte digitali anche ai bambini, vengono lasciati per giorni nella grandi stanze della risiera, al freddo, ma almeno hanno il pane. Quando mia nonna arrivò a Trieste, rivide il pane dopo tanto tempo, ne mangiò così tanto che per paura di non rivederlo, il giorno dopo le venne la febbre per l’indigestione, nascose perfino una pagnotta di pane sotto il cuscino. La mia bisnonna voleva rimanere a Trieste, dove vivevano due suoi fratelli con le famiglie, ma non le dettero il permesso e la mandarono con la sorella nel campo profughi di Migliarino Pisano, dove rimasero due anni. Nel campo profughi non c’erano case, c’erano degli enormi capannoni di legno e lamiera, dove delle lenzuola appese con delle funi, dividevano le famiglie; mia nonna mi diceva sempre che si sentiva ogni rumore e che faceva tanto freddo, ed era difficile, soprattutto per gli adulti, vivere così, e pensare a tutto ciò che avevano lasciato, ai parenti ed agli amici che non erano potuti venir via. Da li furono trasferiti alle ex colonie di Calabrone, mia nonna dormiva nella colonia “Firenze”, la mia bisnonna Tona fu divisa dalla sorella Maricci, la quale, assieme alla famiglia, fu mandata a Pisa, alla mia bisnonna Tona, a suo martito Checo, ed ai due figli Etta e Giannino venne assegnata una casa a Livorno. I Chersini si radunavano ogni anno, ed ogni volta che un esule Chersino muore, che sia in America o in Italia, a Cherso vengono suonate le campane e celebrata messa “Un Chersino è tornato a casa” si dice. E’ difficile spiegare quanto è ancora vivo questo ricordo in noi. Con la legge 92 del 30 marzo 2004 il Parlamento Italiano decide di dedicare una giornata del ricordo in memoria delle vittime delle foibe, il 10 febbraio.
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